Io non sono la mia malattia

Ci sono due frasi che ho ascoltato spesso negli ultimi anni, e che mi sono ritrovata io stessa a dire, in qualche occasione in cui ho raccontato il mio percorso di diagnosi e cura del cancro al seno.

Oggi le ho ascoltate nella video-intervista di Beatrice (Bebe) Vio, atleta paralimpica, che è l’unica a gareggiare a livello mondiale in gare di scherma dopo aver subito l’amputazione di avambracci e gambe in seguito ad un attacco di meningite. Ed è la donna da battere a Rio2016, dopo gli ori europeo e mondiale.

La prima frase è

sono una donna fortunata

È vero, sono una donna fortunata perché ho superato una malattia che, in tempi anche recenti, era una condanna a morte e che invece oggi, grazie alla diagnosi precoce ed alle cure può essere contrastata e garantire, in molti casi, la stessa qualità di vita ed aspettativa di vita di una persona che la malattia non l’ha incontrata. Potete approfondire in questo ottimo articolo di Tiziana Moriconi su SaluteSeno.it.

Ci ho messo un po’ a rendermene conto, e questa riflessione ha cambiato in positivo la mia vita e mi ha permesso di guardare a molti “contrattempi” nella giusta prospettiva.

L’altra frase è

Io non sono la mia malattia

È la frase che ha pronunciato anche Emma Bonino, alla sua prima uscita pubblica dopo la diagnosi del cancro al polmone. Con la sua consueta trasparenza, ha voluto parlare di una delle difficoltà maggiori che incontra chi si ammala: lo stigma sociale.

Susan Sontag lo affrontò nel 1978, quando dovette curarsi dal cancro e ne fece l’oggetto di un libro “La malattia come metafora”. Come recita l’introduzione di Einaudi, che l’ha proposto in Italia nel 1979: “Oggetto dell’indagine di questo libro è l’immaginario che la società costruisce intorno alla malattia: … il repertorio delle metafore, cariche dei tenaci pregiudizi e dei fantasmi di antiche paure, che hanno accompagnato un tempo la TBC e che oggi ammantano l’immaginario legato al cancro …

Per spingere il lettore, finalmente, a liberarsi dall’oscuro senso di colpa e di scandalo che avvolge la malattia, “lato oscuro della vita”

Nonostante oggi in Italia si contino circa 3.000.000 di persone sopravvissute al cancro, questa malattia continua, nell’immaginario individuale e collettivo, ad associarsi a significati di sofferenza fisica e psichica, di morte ineluttabile, di stigma e diversità, di colpa e vergogna.

Quando mi sono ammalata non conoscevo questa realtà, ma a distanza di 8 anni posso analizzare con lucidità e raccontarvi la mia reazione di allora, nella quale forse riconoscerete alcuni tratti comuni a molte di noi:

decidere di tacere della malattia sul luogo di lavoro, dopo aver visto negli occhi e nei gesti di amici e conoscenti, a cui lo avete raccontato, lo sgomento, la paura e – a volte – l’allontanamento.

Mi era capitato di scoprire il cancro il giorno dopo aver assunto un nuovo incarico. E dopo aver fatto molta fatica, come donna, a raggiungere una posizione lavorativa di rilievo, istintivamente volevo evitare che un altro tipo di “diversità” la compromettesse.

Ero in una situazione privilegiata (ero una donna fortunata …), che la maggior parte delle donne che lavorano in Italia non ha: potevo gestire il mio tempo lavorativo in modo flessibile. E poi ero abituata – come tutte le donne – a gestire agende complicate in cui incastrare tutti gli impegni lavorativi, familiari (e poi, forse, personali).

Questo non era la realtà per la maggior parte dei malati di cancro allora, che alla fatica della malattia e delle cure dovevano sommare difficoltà economiche e sociali. E, dopo 8 anni, pare che poco sia cambiato.

Elisabetta Iannelli, Segretario Generale di FAVO, ne ha fatto una delle sue battaglie:

Per il malato oncologico, anche dopo aver debellato il cancro, il reinserimento sociale è un percorso a ostacoli. Oltre a uno stato emotivo fragile, deve affrontare lo stigma sul luogo di lavoro e la negazione dei diritti economici, per esempio l’accesso al mutuo, l’assicurazione sanitaria, i servizi finanziari.

E sicuramente anche noi dobbiamo mobilitarci perché questo cambi.

Ma a voi che affrontate oggi la malattia quello che voglio lasciare come messaggio è che la malattia non è una colpa

e da questa malattia potete guarire, anche, prendendovi cura di voi stesse, riconoscendo e affrontando l’impatto psicologico che ne deriva.

Un racconto che ho scritto qualche anno fa lo testimonia meglio di quanto possa fare qui, in poche righe.

Questo post fa parte di un progetto di diffusione di informazioni, legate principalmente al tumore al seno, ed organizzate intorno al mio percorso personale nell’affrontare la malattia, prima, e nel cercare di comprenderne, poi, tutte le sfaccettature. Qui trovate il post di apertura. Contribuite anche voi raccontandomi nei commenti le vostre esperienze.
La foto di Beatrice Vio è di OnuItalia: http://www.onuitalia.com/2016/04/24/giornata-meningite-prima-di-rio-beatrice-vio-campo-per-campagna-immagine/

Prosegue qui

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Un commento

  1. Letizia

    Il cancro mi faceva paura, come a tutti, come è ancora “normale ” che sia per chi non ce l’ha. E pietà, per chi lo aveva, il desiderio di distogliere gli occhi, riavvolgere il nastro della vita, allontanarsi dalla malattia .Poi è arrivato. E ti cambia, eccome se ti cambia. In primo luogo il silenzio. Mi riconosco : un lavoro di responsabilità, come puoi dire che hai il cancro? Chi farebbe più affidamento su di te? Gli sguardi, appena la memoria di ieri :se ti guardano come io guardavo? Poi, la svolta : io non sono la mia malattia. la ribellione, io voglio sapere, della malattia e soprattutto del percorso di cura. La condivisione :voglio conoscere e lottare con le altre persone, soprattutto con le altre donne. Per la fortuna, per ritenersi fortunate, ci vorrà ancora un pó di tempo. Grazie di cuore.

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