Questo articolo fa parte di una serie di mie riflessioni sull’innovazione technology-driven, cominciata qui, articolo in cui anticipavo che l’innovazione va oltre la pura tecnologia, e qui, articolo in cui cominciavo a delineare gli aspetti che possono ostacolare l’innovazione.
Ogni progetto di cambiamento suscita negli individui reazioni positive o negative, che dipendono – fra l’altro – da quanto il cambiamento è noto, voluto, prodotto dagli individui stessi. Quanto meno il cambiamento è noto, voluto, prodotto, tanto più gli individui esprimono resistenza attraverso i loro comportamenti di lavoro e di relazione.
Possiamo dire che il cambiamento è un processo di trasformazione che risulta dall’interazione tra due forze contrapposte:
- La spinta al cambiamento, che proviene da individui (o gruppi) che percepiscono il cambiamento come utile e semplice nella sua introduzione, ovvero ne comprendono la complessità ed hanno fiducia nelle proprie capacità di interpretare il nuovo ruolo.
- La resistenza al cambiamento, che proviene da individui (o gruppi) che considerano il cambiamento inutile o addirittura dannoso e fanno leva sui ritardi e le difficoltà del progetto per tentare il recupero delle precedenti modalità di lavoro, o al più si limitano a sopportare inerzialmente il cambiamento. Le motivazioni derivano spesso dalla sopravvalutazione del rischio del cambiamento e degli aspetti critici e/o da sfiducia nelle proprie possibilità.
Fra le spinte al cambiamento dobbiamo considerare anche le pressioni formali sia interne all’organizzazione (soprattutto nel caso delle «planned change») sia esterne, in termini di pressione competitiva.
La resistenza al cambiamento negli individui e nei gruppi è normale e ci sono una serie di caratteristiche comportamentali che possiamo osservare per capire se un individuo si trova – rispetto al cambiamento prospettato – nello stato d’animo «esplorativo, di chi rischia il futuro» o «difensivo».
Chi ha un atteggiamento positivo verso il cambiamento di solito si dimostra più appassionato, è più conflittuale, emotivo ed a volte contradittorio. Non aspetta, ma interviene e si espone in prima persona.
Chi ha un atteggiamento di difesa del passato di solito si dimostra più calmo, più coerente (non ha incertezze da gestire), di solito aspetta che siano gli altri a muoversi e tipicamente non si espone in prima persona.
Se ci riflettete, vi accorgerete che entrambe le dimensioni sono in ognuno di noi, è il prevalere dell’una sull’altra che determina la tendenza dell’individuo di fronte a ciascun cambiamento. La buona notizia è quindi che su questi aspetti si può lavorare.