Questo articolo fa parte di una serie di mie riflessioni sull’innovazione technology-driven, cominciata qui, articolo in cui anticipavo che l’innovazione va oltre la pura tecnologia, e qui, articolo in cui cominciavo a delineare gli aspetti che possono ostacolare l’innovazione.
Riprendendo il filo del discorso, abbiamo visto che complementare a quella di prodotto/servizio, l’innovazione nei processi aziendali può essere un elemento di rilancio e di sviluppo, capace di generare ritorni nel breve-medio periodo. Inoltre, anche prodotti innovativi possono non avere successo se non si innova anche il modo di andare sul mercato e gestire la base clienti.
La letteratura e la pratica manageriale relativa all’innovazione di processo conducono a ripercorre, tra gli studi più comuni, quelli relativi al Total Quality Management (TQM – il link rinvia alle slide di un seminario tenuto da Michele Incagli) e al Business Process Rengineering (BPR – il link rinvia al capitolo Reingegnerizzazione dei Processi, Contributo al libro “Sistemi Informativi per la Pubblica Amministrazione: tecnologie, metodologie, studi di caso”, agosto 1999 di Gabriele Lazzi).
Questi approcci si basano entrambi sull’assunto che il processo è «un insieme ordinato di attività che hanno un inizio ed una fine, ed è chiaramente identificato da risorse in input e risorse in output». I due approcci differiscono in modo sostanziale sul processo che permette di sviluppare l’innovazione. Il TQM, basato sulle tecniche utilizzate nei kaisen giapponesi orientate al miglioramento continuo, considera l’innovazione come un processo continuo che l’impresa è chiamata a svolgere per tendere al massimo dell’allineamento con gli obiettivi strategici. Il BPR introduce il concetto di innovazione radicale, basato sulla necessità che l’innovazione debba creare una situazione di distacco dal passato. In questo contesto, la metodologia di gestione e governo del cambiamento deve tenere in considerazione anche i cambiamenti strutturali, di competenze e di risorse che sono generati dall’innovazione.
Esiste una prospettiva di analisi dell’innovazione di processo che teorizza l’esistenza di un ciclo di vita del processo, il quale richiede innovazione sia continua (process improvement) che radicale (process reengineering): un processo può richiedere momenti di innovazione molto forte, a seguito della quale, tuttavia, è necessario gestire l’innovazione incrementale o di miglioramento, al fine di tendere verso una configurazione «ideale».
Un altro fattore da tener presente, nella gestione dell’innovazione e dei cambiamenti che introduce, è l’impatto dell’innovazione sulle routine organizzative.
A seconda del livello di profondità e di ampiezza dell’innovazione, in termini di impatto sulle variabili organizzative, che stiamo introducendo possiamo posizionare il nostro progetto di innovazione in uno di questi quadranti:
- Innovazione radicale, il cambiamento è discontinuo e genera un alto impatto sull’organizzazione perché cambia le routine organizzative, cioè il modo di lavorare, su una vasta area della struttura. I progetti di innovazione radicale sono spesso classificati come «planned change», cioè processi di cambiamento in cui il cambiamento stesso è conoscibile a priori nella sua direzione, effetti e intensità. Questi progetti hanno tipicamente una durata non inferiore ai 9-18 mesi ed impegnano l’organizzazione in modalità top down, a partire dal top management che ne è tipicamente lo sponsor.
- Innovazione marginale, il cambiamento è incrementale, non cambia ma migliora la routine organizzativa e l’efficienza del processo esistente, ha una durata tipicamente di pochi mesi e coinvolge gli specialisti di processo all’interno dell’unità organizzativa, con modalità di tipo bottom-up.
- Innovazione settoriale, è un progetto che ha un impatto di natura organizzativa, tuttavia limitato ad una singola unità funzionale e non presenta i livelli di complessità e la durata dell’innovazione radicale.
- Innovazione adattiva, è il frutto di un processo di cambiamento continuo ed endemico che genera effetti rilevanti sull’organizzazione come cumulo di effetti di basso impatto, se presi singolarmente, prodotti da entità diverse, che si sviluppano su un lungo periodo. Il livello di complessità insito in questa tipologia di innovazione sta nella minore pianificabilità, in quanto il cambiamento (spesso detto «emergent change») può essere non intenzionale e conoscibile a priori, ma agito da diversi attori organizzativi, che condividono la leadership. La gestione di questa tipologia di cambiamento va al di là dei più semplici meccanismi di comunicazione e coinvolgimento che il top management è in grado di attivare nel «planned change».