L’educazione sanitaria è un pilastro fondamentale della Roadmap for Sustainable Healthcare in Europa. In particolare l’azione 2 “Fostering empowered and responsible citizens” indica la condivisione delle informazioni e investimenti sostenuti in materia di educazione, come la strada per consentire ai cittadini di comprendere meglio la loro condizione di salute e pianificare e gestire consapevolmente la propria assistenza sanitaria.
Se ne è parlato anche il 1° dicembre a Roma, alla presentazione del Rapporto “L’Italia per l’equità nella Salute”, che fornisce per la prima volta un quadro sistematico sulle disuguaglianze socioeconomiche in Italia e sui loro effetti sulla salute dei cittadini, a partire dalle evidenze scientifiche, con una particolare attenzione alla recente crisi economica e alle barriere, anche immateriali, per l’accesso alle cure. Esso, inoltre, avanza alcune proposte di intervento condivise tra i responsabili dei diversi settori della vita pubblica che influenzano, da varie prospettive, la salute dei cittadini.
Realizzato da un gruppo di lavoro di INMP, Istituto Superiore di Sanità, Agenas e Aifa, la stesura del Rapporto è stata coordinata da Giuseppe Costa, che in questo breve video descrive chiaramente come, in Italia, l’aspettativa di vita sia più alta a mano a mano che cresce il grado di istruzione, poiché cresce la cosiddetta #HealthLiteracy, cioè le capacità e competenze per prendersi cura della propria salute, a partire dagli stili di vita.
Ad esempio, dal rapporto emerge che nel nostro Paese, a parità di età, molti degli stili di vita malsani sono in genere più frequenti tra i meno istruiti.
Solo il 13% delle persone con alta istruzione fuma, percentuale che sale al 22% tra coloro che hanno frequentato al massimo la scuola dell’obbligo. Analogamente, solo il 7% di chi ha un titolo di studio elevato è obeso e il 52% è sedentario, contro il 14% e il 72% rispettivamente tra i meno istruiti. Lo stesso può dirsi del consumo inadeguato di frutta e verdura, ossia al di sotto delle 3 porzioni giornaliere, soglia non raggiunta dal 41% dei più istruiti, a fronte del 58% dei meno istruiti. Solo per l’abuso di alcol non sembrerebbe evidenziarsi una differenza statisticamente significativa tra i diversi livelli di studio (5,5% per l’alto e 7,3% per il basso).
Le disuguaglianze possono essere determinate anche da fenomeni di accumulo di più fattori di rischio negli stessi individui. Ad esempio, considerando gli stili di vita, i soggetti esposti contemporaneamente ad almeno 3 comportamenti insalubri sono il 25% dei maschi più istruiti, rispetto al 40% dei meno istruiti; mentre tra le donne, tali percentuali sono rispettivamente 17% e 30%. Le differenze risultano, inoltre, più accentuate nel Mezzogiorno.
Il rapporto analizza anche quali azioni possano incidere sulla disequità e fra queste viene citato l’esempio virtuoso rappresentato dagli interventi proattivi di screening per i tumori della mammella, del collo dell’utero e del colon-retto.
È stato ad esempio dimostrato che, nel caso del tumore della mammella, l’introduzione del programma di screening è in grado di azzerare le differenze di sopravvivenza per livello socio-economico presenti al momento dell’attivazione. Tuttavia, sempre secondo il Rapporto, i dati dell’Osservatorio Nazionale Screening mostrano che le persone più svantaggiate per istruzione si sottopongono meno spesso di quelle più avvantaggiate ai test di diagnosi precoce dei tumori della mammella, del collo dell’utero e dell’intestino, che sono offerti dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) con programmi organizzati di screening a gruppi specifici di popolazione.
Gli stessi dati dimostrano come questi svantaggi sociali nella partecipazione al test di screening diventino molto meno evidenti nel caso dei programmi organizzati di screening rispetto al ricorso spontaneo ad esso, a dimostrazione che i programmi attivi di ricerca e invito della persona a rischio sono capaci di ridurre le disuguaglianze di salute.
Su questi temi, fra le azioni possibili per ridurre la diseguaglianza nell’accesso alla prevenzione, il Rapporto riprende ampiamente il Piano Nazionale di Prevenzione, che auspica l’intervento congiunto di diversi attori non-governativi e, “tra questi, la società civile, centri studi, comunità, sindacati, varie associazioni o settori imprenditoriali”, che “possono condurre campagne che promuovono determinati stili di vita, forniscono consulenza o diffondono informazioni riguardanti la salute”. E scende più in dettaglio
invitando, per i luoghi di lavoro, le imprese a porre attenzione all’equità sotto un duplice aspetto: a misurarsi sui differenti bisogni dei lavoratori nella promozione del benessere e della workability; e imparare a promuovere quegli interventi sull’ambiente di lavoro che possono migliorare la sicurezza e rendere più facile l’adozione di stili di vita sani.
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